“Minus stare”: stare sotto, essere più basso, fare del proprio “essere meno” un “essere per”, cambiando i segni dell’operazione. Chi è chiamato ad un ministero, deve fare della propria “sottrazione” di tempo ed energie, una “moltiplicazione” ad infinitum di grazia e di consolazione per i fratelli. Deve “creare un cielo nella disperazione dell’inferno”, perché ciò è coessenziale all’amore per W. Blake, ma è coessenziale anche alla verità, insegna la teologia medievale: non c’è vero senza bene, e non c’è bene senza amore. “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno” (Sal 85, 11).
Ci si sente variamente inadeguati a dosare giustizia e misericordia divina nell’amministrare il sacramento della Riconciliazione, di fronte ai casi rocambolescamente prospettati, e simpaticamente mimati dal p. Robert Geisinger[1], mai privi di appigli nella realtà. Una realtà che si dissigilla all’interno di un sigillo, quello sacramentale, che forse spaventa per la sua pertinenza di diritto divino – nonché per le tragiche conseguenze canoniche e umane che una sua violazione, anche indiretta, provoca – ma che, in verità, traduce amore, ancora una volta, nella veste di un Dio che assume i tuoi occhi e le tue orecchie per rendersi uomo all’uomo, dando fiducia alle coscienze del penitente e del confessore in non differenti misure. Una realtà non brutta ma abbrutita, che ha tradito, talora aborrito, i segni della sua bellezza, smarrita, mai definitivamente persa. «Và, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione›› (Os 1,2): chi si prepara a diventar ministro di riconciliazione, sta scegliendo questa sposa, e deve saperlo. Non è la Penelope di Ulisse, pronta a cucire e scucire ogni notte la tela per rimanere fedele al suo sposo: qui è Ulisse, cui è stato conferito il potere di “sciogliere e legare”, a cucire alla sposa il suo vestito (cf Mt 22,11), preservarle la costante possibilità di un ritorno innamorato, quando questa, frequentemente, viaggerà per altre spiagge. Solo così, a poco a poco, sì dopo sì, no dopo no, ‹‹avverrà in quel giorno – oracolo del Signore – mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone›› (Os 2,18).
Non basterà la storia di ciascuno a realizzare questo matrimonio, perché esso si celebrerà definitivamente a suggello della storia della salvezza (Ap 19, 7-8). Ma non è un caso se la Bibbia stessa si conclude con questa solenne liturgia, che rilegge l’intera storia dei due “fidanzati” e tutto interpreta alla luce del matrimonio finale. Liturgia non è il margine della storia, non la sua sospensione, non la sua idealizzazione: è la sua verità, la presenza ed azione di Cristo in essa per il tramite della Chiesa. È la storia vista nel suo rapporto con l’Eterno, che le dà senso e continua a muoverla per mezzo di riti e preghiere “materialmente” inutili, ma che in realtà non la lasciano mai al punto dove l’hanno trovata, perché nemmeno chi la partecipa si ritrova poi allo stesso punto di partenza. Allora tutto in essa ha senso, come il p. Massimo Marelli[2] ha provato a sottolineare discettando di ars celebrandi, non solo in ordine alla “proporzione” intra-liturgica, ma anche in funzione del beneficio di chi celebra: i luoghi liturgici, la posizione della Chiesa, la sua struttura che ci inchioda alla Croce e ci immerge nella ferita del costato, nonché le parole, i tempi, i gesti, i suoni, i silenzi. ‹‹Il tempo è troppo lento per coloro che aspettano, / troppo rapido per coloro che temono, / troppo lungo per coloro che soffrono, / troppo breve per coloro che gioiscono; / ma per coloro che amano, / il tempo non è››[3].
Chi amministra i sacramenti, deve essere sacramento egli stesso: non solo e non tanto in quanto reso destinatario dell’Ordine – condizione necessaria e sufficiente a che ciò accada – ma affinché “persona Christi”, da mera affermazione dogmatica, fiorisca in identità personale e dimensione esistenziale di colui che in essa agisce. Allora l’omelia sarà davvero “estensione” nell’oggi di quella Parola che è Cristo, possibilità di schiuderne il senso perché fecondi gli eventi, e ricongiunga così la storia degli uomini a quella Rivelazione che a noi si è offerta in “eventi e parole intimamente connessi” (DV 2) e continua a parlare di sé mediante i segni dei tempi disseminati in ogni coordinata spazio-temporale. Prima la liturgia della Parola si adatta a noi “admodum recipientis”; a noi il compito di donare in parole questa Parola, annunciando, di Cristo, in che modo può essere via, verità e vita. Non che sia particolarmente arduo: talora viene da dire, col Montale di Ossi di Seppia, “non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe”. Ma non basta il vocabolario, i temi, i toni vocali, le tecniche oratorie, giacché, come d’altronde sarebbe in qualsivoglia umana comunicazione, esiste un’omelia non verbale che precede, innerva e segue l’omelia verbale, dentro cui l’omelia verbale risuona come Parola di vita: quando c’è infatti sincera consonanza tra ciò che si dice e ciò che si vive, realmente allora anche l’omelia sarà pronunciata “in persona Christi” e “per verba Christi”.
Tutto ciò ha contribuito ad accrescere in noi tanto il desiderio del ministero quanto la percezione della grande responsabilità cui siamo stati chiamati. Alla fine del V anno, ci si percepisce come al vertice del tronco, pronti a diramarsi in rami nelle più svariate direzioni perché fiorisca la chioma. La consapevolezza di essere domani, come oggi, semplicemente canali di quella linfa che è la grazia divina, ci fa sperimentare appieno la dimensione di servizio alla quale ci sentiamo tutti variamente chiamati, nella vera consapevolezza che nulla dobbiamo aggiungere a quanto l’amore di Dio ha già fatto, sta facendo e ancora realizzerà in quel mondo umano e naturale che egli stesso ha creato.
Comunità di V anno
[1] Gesuita, Promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, Docente straordinario presso la Facoltà di diritto canonico della Pontificia Università Gregoriana.
[2] Gesuita, Docente di liturgia all’Università LUMSA di Roma e alla Pontificia Facoltà Teologica di Cagliari, Vicedirettore dell’Ufficio Liturgico del Vicariato di Roma.
[3] Henry van Dyke, poesia “Il tempo è”.