Oltre la «dittatura del sì»: per un’autentica esistenza!

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Oltre la «dittatura del sì»: per un’autentica esistenza!

Noi siamo al mondo come un pesce nell’acqua: diversamente muore. Il mondo è il nostro orizzonte di senso esistenziale e il corpo che siamo è la nostra prima esperienza del mondo. Il corpo non è solo fuori di noi, è dentro di noi perché il corpo è già mondo. Abitiamo e siamo abitati dal mondo: siamo un piccolo mondo all’interno della vita del mondo.

L’uomo, dunque, è “afferrato” dal mondo emotivo e, per tutta la vita, è chiamato a prendersene cura per vivere una vita integrata con gli altri: le emozioni, infatti, rivelative dell’essere, ci dispongono in un certo modo nella relazione.

Come ci insegna il più grande esponente dell’esistenzialismo del secolo scorso, Martin Heidegger, in Essere e tempo, nella sua costitutiva «estroflessione», l’uomo può disperdersi e venir ad assumere un’identità paradossale: l’«essere-assieme» agli altri può dissolvere ogni originalità per una «contrapposizione commisurante». In questo stato di indistinzione, nella quotidianità, il Si esercita la sua «autentica dittatura». Nel mondo del Si ognuno è come l’altro, giacché il Si non è nessuno e, insieme, è tutti; è il «neutro». Ognuno è sé stesso in quanto è omologato agli altri, e perciò risulta non individuato. Tutto risulta appiattito: l’«io» stesso diventa parte di un «tutto indistinto» e le sue convinzioni vengono assorbite da quella «opinione pubblica» che, in quanto mai definita, ha sempre ragione e per la quale tutto è facile e già risolto. Il singolo, dunque, è sottratto delle sue responsabilità concrete.

Nel mondo della quotidianità, perso nella dispersione del “si dice”, l’uomo dà ascolto solo alla chiacchiera e risulta chiuso, invece, nei confronti del proprio sé, cioè non è capace di attuare un rapporto adeguato con sé stesso.

In contrasto con questo chiacchiericcio chiassoso, per Heidegger, la coscienza ha la funzione di richiamare-ridestare l’uomo, riportandolo a sé stesso, assumendo addirittura il carattere di un “urto”. Una voce silenziosa che è una vera e propria chiamata: essa non dice proprio niente, non solo non comanda qualcosa di determinato, ma il suo stesso “parlare” si attua, paradossalmente, al modo del tacere. L’uomo risulta essere, infatti, sia il chiamato (in quanto è colto nel suo decadimento e sollecitato ad assumersi e ad attuarsi nel proprio poter-essere finito) che il chiamante (nella misura in cui si trova gettato in un angoscioso spaesamento di fronte al suo poter-essere). Per il filosofo di Friburgo, «la coscienza è la chiamata della Cura» e nel corretto ascolto di questo richiamo, è già attuata una risposta: scegliere di staccarsi dal mondo del sì per divenire davvero libero. In tal modo, l’uomo non solo si appropria di sé stesso ma, nel contempo, è in grado di rapportarsi autenticamente agli altri.

L’uomo può vivere come una cosa, prigioniero dei propri appetiti, funzioni, abitudini e relazioni, di un mondo che lo distrae. Una vita immediata, senza memoria, senza progetti, senza controlli. La possibilità di costruire una vita autentica, tuttavia, inizia con la ferma decisione di rompere il contatto con l’ambiente, di riprendersi, di ripossedersi, per riportarsi ad un centro e raggiungere la propria unità. È il movimento della Cura. Un cammino di raccoglimento – che è sempre una conquista attiva – per sprofondare al fondo di sé stessi, nello spazio in cui cerco la tiepidezza della vita inautentica e, non fermandomi alla quiete dei primi ripari, decido di condurre l’avventura fino in fondo, per rintracciare quell’angoscia essenziale legata alla propria esistenza, al mistero tremendo della propria libertà. Nel raccogliersi per trovarsi, nel dispiegarsi per arricchirsi e ancora ritrovarsi, la vita della persona è la ricerca fino alla morte di un’unità presentita, desiderata e mai realizzata. È un’esperienza tensionale, mai compiuta, sempre da rinnovarsi: tra le due modalità esistenziali, infatti, vi è una certa compenetrazione, nonché una “contemporaneità”, nel senso che l’una sarà sempre nell’altra. Nell’autenticità conquistata, vi sarà sempre e comunque dell’inautenticità “residuale”: la nostra origine non può e non deve, infatti, mai venire del tutto cancellata o dimenticata. È solo a partire dall’inautenticità che l’uomo può farsi autentico.

 

Italo Prisco

Comunità III anno

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