Amore che prende forma

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Amore che prende forma

“In un’ora dello stesso giorno fiorisce e vive, in altra invece muore, ma poi rinasce […]” con queste parole Platone descrisse nel suo Simposio, la natura di Amore, impulso magmatico nelle viscere dell’uomo che lotta e si affanna con l’atroce debolezza di ogni essere, compositore ispirato che sui pentagrammi del Kronos elabora melodie di arguta e struggente bellezza, per poi lasciare spazio a prolungati silenzi, locuzioni di attesa e desiderio.

Nasce da Poros (Ingegno) e Pènia (Povertà) secondo il filosofo greco; sgorga dal cuore di Dio secondo ogni credente, e parla, loquace, nei respiri della storia che, come una sposa, non attende altro che l’Amato si faccia così prossimo, in uno sfiorarsi d’ombre, che è già preludio di un’alba.

L’arte è donna, per eccellenza, sa trasformare l’impeto e la tenacia della virilità in un capolavoro eterno. Disposta a concedersi allo sguardo di tutti, ma fedele nell’offrire l’intimità della sua essenza solo a colui che la concepì in un parto travagliato di desiderio, immagini, aspettative e ripensamenti.

È ciò che la Sposa dei Sacri Cantici di Gaetano Motelli (1854) racchiude in quella posa composta, narratrice di una storia che batte, pulsando sotto un candido e marmoreo seno scoperto, protetta tra le mani poste a sigillo di una verginità ancora da preservarsi, custode di inenarrabili versi di sublime incanto.

La verginità come lampada infuocata squarcia il buio dell’immaginazione, si fa strada tra i morbidi panneggi, su sentieri di trepidazione e desio, quella che non teme i gutturali suoni di un incubo, poiché è intonata con i sonori canti angelici, con le melodiose parole del Cantico, che ancora riverbera nei cieli dell’eternità.

Solerte, sollecita, zelante nel riconoscere i passi di un’ombra, che assume man mano il nome di chi avanza, dall’orizzonte dell’eros, fino ad increspare la nivea epidermide, a far ribollire le rigide venature marmoree di un sangue di passione… l’avvento di chi trasforma un’attesa in pietra incarnata.

Scolpita non solo da intensi prima, e furtivi e labili colpi poi; ma modellata anche dal sudore di chi l’ha pensata, l’ha liberata dal petto e dalla mente in cui era incatenata… perché il desiderio di cui essa racconta non è altro che l’amore che incendiava l’anima di Motelli, e che arde da sempre nel cuore di Dio.

Aperta la prigione del marmo, l’occhio di chi oggi la contempla, può semplicemente ammirare una sintesi impeccabile di umanità e Scrittura, da far vibrare le porte del cielo… umile, allo stesso tempo, per fornire la chiave di un “attendersi”: il verbo amato dal Creatore, il verbo anelato dalla creatura, la cui pagina è la corporeità voluta e formata nel seno del Padre.

È da sempre lì la sposa, seduta in attesa, in raccoglimento, che è estasi dei sensi e dello spirito. È parola dischiusa sull’uscio del cuore, la stessa sussurrata nelle notti dei talami, dove cessa il fragore della civiltà e si dipinge sulle tele degli amanti la generatività di un “sentire” che è vita e futuro… è fuoco che tramuta il tempo in incontro… ciò che fa di un gemito la prima sillaba di un testamento che si chiamerà figlio. Così il Pascoli ne avrebbe cesellato l’oro poetico, in un lume che si spegne e trasforma una semplice fanciulla in madre.

“[…] Per tutta la notte s’esala

l’odore che passa col vento.

Passa il lume su per la scala;

brilla al primo piano: s’è spento…

È l’alba: si chiudono i petali

un poco gualciti; si cova,

dentro l’urna molle e segreta,

non so che felicità nuova.”

             (G. Pascoli. Il Gelsomino Notturno, 1903)

È poesia! Quella che nell’arte si fa espressione e dinamismo, seppur in giochi di statica sinuosità e silenzi. È da sempre lì la sposa, immobile, disposta a subire i colpi che l’avrebbero modellata, quelli che avrebbero trasformato la pietra in velo, il marmo in donna. È da sempre lì, perché in una scultura, che con eloquenza rende la sua testimonianza, vi è sempre un “oltre” che si fa preda degli umani sguardi ma è pudico e casto in virtù di quel Magis da cui scaturisce… ciò che noi abbiamo imparato a chiamare Logos, Cristo! È su quelle labbra appena schiuse, è sulla bocca della Chiesa orante, che si posa l’uomo in attesa di raccogliere il polline che si fa preghiera… della bellezza che si tramuta in colpa redenta.“Chi pose tanta forza nel tuo cuore?” domanda la gelida principessa Turandot alla coraggiosa serva Liù nella notte decisiva del dramma. “L’amore”, una sola parola ricevette come risposta, come chiave che risolve e svela il segreto nascosto nelle serrature degli intrighi. L’amore…. Cristo che è fonte di ogni bellezza, è vigorosa luce che dipana ogni tenebra, è la potenza che non teme di farsi debolezza… così prossima al ciglio del baratro da gettarvisi dentro, per attraversarlo e divenire offerta. Ecco, cosa è chiuso in questo candido scrigno ottocentesco: un segreto che si svela, incarnando la pietra, per offrirsi in poesia.

“Tanto amore segreto, e incoffessato,

grande così che questi strazi

son dolcezze per me

perché ne faccio dono

al mio Signore…

Perché, tacendo, io gli do,

gli do il tuo amore…

Te gli do, Principessa,

e perdo tutto! E perdo tutto!

Persino l’impossibile speraza!

Legatemi! Straziatemi!

Tormenti e spasimi date a me!

Ah! Come offerta suprema

del mio amore!”

          (G. Puccini. Turandot – Atto Terzo, 1920)

Gaetano Motelli, scultore dimenticato dell’Ottocento, la pensò così la Sulamita (la Sposa dei Sacri Cantici facente parte della Collezione Litta – Milano): giovane, bella e libera… così libera da poterla mostrare immobile e seduta. In un adagio del corpo che si fa custode di uno spirito andante. Cala il sipario sulle fanciullesche palpebre, inizia la cavalcata dello Spirito nella frondosa notte e canta la sposa, canta in cerca dell’aurora: l’Amato. Canta la giovane speranza, canta con ogni fibra del suo essere… canta svegliando il suo cuore dal sonno, implorando:

“Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio;

perché forte come la morte è l’amore,

tenace come il regno dei morti è la passione:

 le sue vampe sono vampe di fuoco,

una fiamma divina!

Le grandi acque non possono spegnere l’amore”. (Ct 8, 6-7)

 

Diego Antonio Della Bella

Comunità III anno

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