A pochi giorni dal Natale, nelle sere già illuminate dalle luci e rallegrate dal suono delle zampogne, nella frenesia della corsa ai regali e nella tradizione del canto della Novena, come comunità del Seminario abbiamo vissuto un tempo di silenzio da dedicare “a Lui, e a Lui solo”, guidati dalle parole di Mons. Vittorio Viola, segretario del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Guardate a Lui e sarete raggianti: è questo il tema dell’anno, ed è da questo versetto che mons. Viola ha provato a rileggere il tempo dell’Attesa. Guardare: tutto parte sempre dallo sguardo. È lo sguardo del cuore, che può spingerci a correre, come l’amata del Cantico, ma che può lasciarci arenare nelle nostre certezze. È stata l’esperienza dei discepoli che il giorno dell’Ascensione fissavano il cielo. Non si può vivere il Natale se non partendo da quel momento: “questo Gesù”, quello di cui i discepoli avevano fatto esperienza, con il quale avevano condiviso tristezze e gioie, quello stesso Gesù è stato “rapito in cielo”. E attoniti, cercavano di trattenerlo con lo sguardo. Ed è qui, in questo momento, in questo guardare a Lui che non c’è, che si svela il senso del Natale: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1, 11). È racchiuso in questi pochi versetti il significato di questo tempo d’Attesa: una Sposa attende lo Sposo, e lo fa preparandosi nel migliore dei modi, facendosi bella.
Sì: la certezza del suo ritorno è la speranza del cristiano. È il motivo per cui la liturgia pone il tempo dell’attesa all’inizio del grande anno liturgico. È come se questo tempo di attesa ci dicesse Questo Gesù tornerà, risveglia l’attesa. Guarda al cielo, per mettere ordine nella visione limitata del tuo essere e per lasciarti conformare a Lui, al più bello dei figli dell’uomo. In poche parole: vivi in pienezza il presente, lasciati guidare dallo Spirito, così che in quel giorno tremendo e glorioso il Padre, guardando il volto del Figlio e guardando i nostri volti, possa non trovare differenze.
Ma l’attesa è pesante, soprattutto quando, alzando gli occhi al cielo, non si vede Lui, ma si scorgono solo le nubi, e talvolta il buio. Così questo “portale d’ingresso” al mistero di Cristo che contempliamo giorno dopo giorno nel nostro anno, è sorvegliata da due sentinelle, così diverse ma così simili: entrambe si lasciano sconvolgere dal modo in cui si compie l’attesa: non c’è nulla di più inatteso che l’Atteso.
Solo rinnovando l’attesa, solo riconoscendo che il ritorno del Signore è certo, è possibile ritornare al “fatto” dell’incarnazione, ritornare a quell’ “oggi” della salvezza. Come i pastori in quella notte apparentemente statica, anche a noi viene sempre annunciata la salvezza. E come avvenne a loro, anche per noi quella luce “spaventa”: è il segno della nostra fragilità che il Signore decide di visitare. È Lui che ci cerca ancor prima di metterci noi in cammino. L’incarnazione è un fatto, ma è anche il metodo che Dio usa per incontrarci.
E così, quel buio illuminato dalla luce della sua presenza, dall’annuncio di quel fatto, non fa più paura: anche se la luce dovesse spegnersi, anche se il canto del Gloria dovesse ammutolirsi, anche se il buio dovesse tornare, per noi, come per i pastori, sarà più semplice camminare nella notte. Camminare: dopo aver guardato ed essere stati avvolti dalla luce, non si può rimanere fermi. Ogni dono di Dio chiede una decisione. Ed è vero, il cristiano che non attende non ha una meta verso cui camminare. E quando sembra che l’attesa sia troppo difficile e il buio sembra prevalere, ricordiamoci della sua promessa: “«Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù.” (Ap 22, 20).
Francesco Saverio Giglio
(Comunità V anno)