Quali sono le parole in cui il nostro tempo può “esser detto”?
Dalla prospettiva del nostro radicamento – Occidente – noi incontriamo dei luoghi in cui potremmo forse lasciare confluire parole come “Crisi/fine dell’adulto”[1], “crisi dell’autorità”, “post-verità”, “accelerazione sociale” e molte altre. Tutte queste parole, in qualche modo, ci indicano qualcosa di un altro luogo: la crescente curvatura dell’Ego umano verso il narcisismo e la spettacolarizzazione della vita nelle molteplici forme, più o meno nascoste, a cui assistiamo.
In realtà, le parole divenute luoghi o, meglio, luoghi comuni, sono tradotte da una comunicazione che sembra molto più incentrata sull’immagine che sulla parola stessa. Comunicare attraverso le immagini ha fortemente modificato, per noi, non solo i contenuti che proviamo a veicolare ad altri, ma la nostra percezione del mondo. Che cos’è mondo nell’era digitale? In quale mondo realmente noi abitiamo? Il nostro Ego trova, apparentemente, una facile collocazione identitaria accanto alle immagini: esse rivelano spesso il mondo dell’inessenziale che abitiamo e mostriamo, celando, allo stesso tempo, chi veramente noi siamo.
Abitiamo gli schermi dei nostri dispositivi, dove il tempo scorre così, inavvertitamente, cancellando tracce della coscienza di noi stessi, riponendo in uno spazio dimenticato della nostra anima quello che più autenticamente pensiamo e desideriamo. Abitiamo le immagini che ci avvolgono nel sonno della ragione e obbediamo alla velocità di un tempo che “non ci appartiene” e ci sfugge, che ci estranea, trasportandoci fuori, lontano da noi stessi.
Dietro le immagini l’assenza di parole non denuncia semplicemente una povertà culturale, una crisi dell’istruzione[2] per dirla con Hannah Arendt, ma una più radicale domanda sul modo in cui l’essere dell’uomo è cambiato, lasciando emergere nel tempo un “nuovo modello antropologico”.
In questo orizzonte possiamo tuttavia provare a cercare le parole oltre le immagini, quelle parole che dischiudono i tempi lunghi e faticosi attraverso i quali la riflessione matura la capacità di assumere il sentire umano, la sua vulnerabilità, tornando ad abitare il luogo della coscienza di sé.
Qui possiamo essere raggiunti da una parola da cui affiora il ricordo di un bene, in noi dimenticato, che ci salva. La parola è contatto tra l’Io e il Tu, esodo da Sé a un Altro: “Ciò che vale della parola soprattutto nella sua origine e vitalità spirituale, si manifesta nel modo più chiaro in riferimento all’Io e ugualmente al Tu: non perviene al contenuto affermato «dal di fuori» ma nasce piuttosto dal suo stesso intimo; così come a sua volta tale contenuto nasce dalla parola, dal fatto che l’uomo «ha la parola» … l’essenza invisibile della nostra anima si manifesta mediante le parole” [3].
Per questo è vero che ogni cosa può iniziare con la parola e la Parola – Logos – è inizio assoluto: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… (Gv 1, 1).
Veronica Petito
Docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Sez. San Luigi
[1] Scrive G. Cucci: “Nell’attuale società liquida la fase adulta rischia di ridursi ad un’espressione anagrafica, senza più compiti specifici che la caratterizzino e soprattutto la differenzino dalle fasi precedenti della vita, conferendole un’identità: essere adulti era sinonimo di essere maturi, non più bambini, in grado di assumersi responsabilità. Queste caratteristiche appaiono sempre più rare, al punto che non è eccessivo parlare di una liquidazione dell’età adulta”. (G. Cucci, La crisi dell’adulto. La sindrome di Peter Pan, Cittadella, Roma 2012, p. 25).
[2] Ad oggi si stima che un ragazzo su due non è in grado di comprendere un testo scritto.
[3] F. EBNER, La parola e le realtà spirituali, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, 147.