Giovedì 10 gennaio la nostra comunità di seminario si è riunita per celebrare la messa intercomunitaria. La celebrazione eucaristica è stata presieduta da padre Antuan Ilgit S.I., animatore della comunità di primo anno. Di seguito l’omelia tenuta da padre Antuan:
Carissimi fratelli,
è un passo di Vangelo bello e tosto che ci accoglie oggi. Siamo di fronte a una scena straordinaria della vita di Gesù, che ci descrive gli inizi della sua attività pubblica in Galilea. È un momento forte per Lui, perché si sente innanzitutto la potenza dello Spirito, si nota l’entusiasmo della gente che avvicina Gesù e che la sua fama si diffonde ovunque. A Gesù nella sinagoga tocca di leggere la profezia di Isaia che la traduce nell’oggi, applicandola alla sua persona.
Ci sarebbero tanti spunti; ma piuttosto di parlare della messianità di Gesù per questa volta scelgo di concentrarmi all’esperienza del momento che Gesù sta vivendo e come la sta vivendo. Anche perché da questa esperienza abbiamo cose da imparare per il nostro ministero, oggi e nel prossimo futuro. E lo farò, tenendo presente anche la seconda parte del brano, i versetti successivi che non sono riportati nella liturgia di oggi.
Il testo di Isaia inizia con un “annunciare ai poveri la lieta notizia” e continua menzionando prigionieri, ciechi, oppressi; termini tutti collegati tra di loro. E quindi la figura che ne emerge è quella del discepolo respinto, di colui che, avendo fatto propria la sorte della Parola viene abbandonato. La lieta notizia è soprattutto per loro, e tra poco Gesù farà la stessa esperienza.
Queste parole suscitano un’attesa nella sinagoga. Per questo, come dice Luca, Gesù è al centro dell’attenzione: “gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui”; colui che fissa, e fissando ama, ora viene fissato. Il pubblico si chiede: “Che cosa ci dirà su queste parole? Che cosa ne verrà fuori da questo ragazzo?”. Come fossimo alla Prima Messa di Gesù alla quale partecipano i suoi parenti, cugini, amici e tante persone che sono incuriositi perché hanno sentito parlare di Lui. L’attesa è grande, perché il sacerdote novello ora farà la sua omelia. L’omelia di Gesù è molto breve.
È diversa dalle nostre. È sunta e incisiva: “oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”. È questa la sua omelia; non dice altro, poche parole.
Il pubblico si sarà chiesto: “che cosa sta succedendo? Che cosa sta dicendo, cosa ci porta nuovo, a cosa si riferisce?”. Pensiamo come ci troveremmo noi in questa situazione, presi dalla paura di deludere: “se si fa un fiasco qui, forse tutto il resto andrà male”. In una situazione simile ci verrebbe naturale la domanda: “come affrontare questo pubblico diffidente?”. E forse si sceglierebbe di giocare un po’, di non comprometterci, per non offendere troppo, e di dire parole di lode a questa pubblica cosi devota, per strappare un applauso e la soddisfazione. Così infine, con un bel respiro possiamo dire, “è andato bene!”
Io personalmente, mettendomi in questa situazione, la sento come mia. Specialmente ogni volta che mi trovo ad affrontare un pubblico nuovo, come anche adesso, e ciascuno di vuoi può sentirla come propria, in quanto siamo sempre guardati… in quanto siamo sempre al centro dell’attenzione, da parte della gente che ci sta intorno e che ci condiziona… perché aspetta da noi certe cose, certe parole; e noi siamo lì, con la paura di non dispiacere troppo. Il cosiddetto politically correct.
Gesù dice e non dice, “Io sono il Messia”. Si limita a dire solo che, “oggi si è adempiuta…”. Parola che dice che il tempo della fede in qualche modo è finito: “voi avete sperato, aspettato, per tanto tempo, ed ecco ciò che aspettavate è giunto!”.
È certamente un ottimo annuncio per un israelita che vive la propria fede in attesa. Non si capisce bene se questo annuncio è ben accolto. Il brano dice che, “tutti gli rendevano testimonianza”. Sarà una testimonianza buona o una testimonianza cattiva? Sembra buona, non per niente il Vangelo ci dice che “erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca.” Ma può essere anche non buona, questi possono essere meravigliati soltanto per il fatto che Gesù invece di parlare un linguaggio di vendetta contro i nemici, annuncia soltanto la misericordia.
Voi che fate il corso dei Vangeli sinottici sapete bene che in effetti l’episodio non finisce così. A un determinato momento, l’atteggiamento diventa più negativo: “Non è figlio di Giuseppe?” cominceranno a chiedersi. “Parla bene ma in fondo chi è, che cosa ha fatto? Dicono di lui tante cose, lo faccia vedere!” Se io facessi un discorso del genere nella moschea del mio quartiere i miei ascoltatori si sarebbero chiesto, “ma chi è questo qui? Non è figlio di Mustafa, il pescatore?” E ciò potrebbe succedere per ciascuno di voi nel suo piccolo. Gesù reagisce, dà loro una dura risposta che inizia con un “nessun profeta è bene accettato nella sua patria”. Questi si alzano, lo cacciano fuori conducendolo fin sul ciglio del monte. Ma egli si fa duro il volto, e passando in mezzo a loro, si mette in cammino.
Guardate che atteggiamenti sono. È un vero uomo Gesù; un uomo libero a cui non piacciono troppo chiacchiere, non si spiega, dice due parole e se ne va. Gli altri si arrangino… la Parola, quella necessaria, è stata già detta. Dobbiamo davvero imparare dal Maestro la sua libertà d’animo. Anche perché cari fratelli, la Parola di Dio è libera e universale; non è come le nostre, sprecate a buon mercato nei corridoi, nelle stanze a porte chiuse. La Parola di Dio non può essere legata da nessuna… Nessuno può condizionarla… Nessuno può chiedere che la si dica in questo o quell’altro modo… Nessuno può aspettarsi questo o quel vantaggio… La Parola di Dio è per tutti. E quando è necessario, spezza anche le barriere. Per questo la Parola di Dio non piace sempre, non è fatta per l’applauso, può addirittura essere causa di guai. Ecco che Gesù o il nostro sacerdote novello nel suo primo giorno del ministero si trova già nei guai. Libertà quindi.
C’è un’altra cosa che dobbiamo imparare da Gesù, oggi. È quella di essere uomini veri… Seminaristi, preti veri… Cosa vuol dire essere l’uomo vero? Da moralista, ve ne dico soltanto una delle caratteristiche, il resto lo scoprirete voi stessi. Una caratteristica fondamentale: l’uomo vero dovrebbe avere due palle, “a man with balls” dicono gli americani. Due palle vere, e se le tiene per tutta la vita; in ogni stato di vita: sposato o non, seminarista o non, prete o non. Senza quelle non c’è nessuna spiritualità che tenga.
Solo cosi si rispetta la creazione. Solo cosi si rispetta l’incarnazione che abbiamo appena celebrato. In un ambiente come nostro, una specie di barattolo di vetro, in cui siamo protetti dal mondo in tutti i sensi, positivo o negativo, c’è il rischio per ciascuno di noi, che dimentichiamo dell’incarnazione. E nell’arco di 5-6 anni diventiamo seminaristi, preti asessuati, perfetti nella talare, impeccabili nella liturgia ma che hanno paura di mettere il piede fuori dalla sacrestia, e che hanno paura di uscire al sagrato delle loro parrocchie per non mischiarsi con il mondo… preti che non possono sopportare di essere rifiutati alla maniera del Maestro.
Gesù che è libero di tutto questo e che il vero uomo, ha tutt’un’altra storia a raccontarci. Inizia il suo ministero con un rifiuto cosi forte. Non soltanto se ne va amareggiato, ma la gente si irrita, si infuria. Gesù si sente preso, si sente mettere le mani addosso; poi immaginate che umiliazione per gli amici e per la madre. Figlio di Dio incarnato, appena inizia il suo ministero davanti a sé trova già la croce. Essere uomini veri quindi. Puntare a questo sulle orme del Maestro, e non ad altro.
È un Vangelo che ci dice di mettere i piedi per terra. È un Vangelo che invita voi seminaristi a vivere bene questi 5 anni nel seminario, sfruttando tutti gli strumenti che la Provvidenza vi mette alla disposizione: dai formatori ai pp. spirituali, dagli psicologi alla facoltà con tutte le imperfezioni che questi strumenti hanno. E che non rimanga nessun aspetto nascosto di voi, anche perché tutto quello che si nasconde con cura, sfugge il mistero dell’incarnazione. E quando un giorno viene fuori —e credetemi che viene fuori— rovina tutto il nostro cammino.
L’altro giorno nella catechesi con i miei ho parlato dell’esame ignaziano. È da fare in ogni momento del nostro cammino; ma almeno una volta lo dovreste fare per bene, magari verso il termine del vostro cammino qui in Seminario, prima di richiedere di essere ordinati presbiteri. Il criterio-chiave di questo esame di coscienza ci viene fornito da Giovanni nella prima lettura: “Se uno dicesse: ‘Io amo Dio’, e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”. Se avete tuttora qualche fratello che odiate, e che non riuscite a fissarlo e ad amarlo… fermatevi un attimo e pensateci due volte. L’amore e amare hanno certamente delle sfumature che risentono dai condizionamenti. Tuttavia, quando si tratta di un rifiuto categorico si è nella situazione di cui parla Giovanni; ed è una spia rossa di qualcosa che non va in noi, ma forse ancora più peggio nella nostra fede in Dio che non vediamo.
Il Vangelo di oggi è anche per noi formatori che dobbiamo ugualmente imparare dalla libertà e dall’essere vero uomo di Gesù, e che dobbiamo poi trasmetterne a quelli che sono affidati a noi. Anche perché come Gesù nella sinagoga, gli occhi di tutti voi sono fissi sopra di noi, che nonostante i nostri limiti, cercate di fidarvi. È una grande responsabilità per noi.
Quindi, in fin dei conti, il Vangelo di oggi ci offre due parole chiave valide per ciascuno di noi: la libertà e l’essere vero uomo.
Allora cari amici, esaminati la nostra coscienza e fiduciosi nella lieta notizia che Gesù annuncia a chi sta dalla parte della Parola, per intercessione della Madre celeste che ha accolto e incarnato la Parola di Dio, ci mettiamo in preghiera e chiediamo al Signore:
“Signore, fa di noi uomini liberi e veri come lo sei Tu. E fa che entriamo nel profondo del tuo cuore e ci accorgiamo che la tua Parola è prima di tutto non Parola fatta per l’applauso, ma Parola di verità; Parola che ha la sua forza in sé stessa e non per l’accoglienza che riceve” (Cf C.M. Martini).
Così sia.
P. Antuan Ilgit, S.I., Posillipo, 10 gennaio 2019